Il “48 Hour Film Project” è un concorso internazionale che richiede la realizzazione di un cortometraggio completo in sole 48 ore. In questo periodo di tempo estremamente limitato, ai partecipanti vengono comunicati tre elementi obbligatori cinque minuti prima dell’inizio del countdown: il genere del cortometraggio, un oggetto specifico da includere in una scena e una battuta di dialogo da incorporare nello script.
Questa competizione è una grande sfida per tutti i tecnici dell’audiovisivo, e ci sono dei gruppi che si preparano mesi prima, per quanto possibile.
Ma ovviamente non è il nostro caso.
Oggi siamo qui per parlare con Marco Ranieri, un giovane direttore della fotografia. La sua avventura nel mondo del cinema è iniziata con gli studi presso l’Accademia del Cinema Ragazzi di Bari, e poi ha continuato a formarsi frequentando il corso da Cinematographer alla Shot Academy a Roma. Nel frattempo, ha sempre lavorato sul set cinematografico, concentrando la sua passione nel reparto della fotografia.
Come sei arrivato al 48h film project?
Ero a Roma, avevo appena finito un set e mi trovavo in un momento di calma tra un lavoro e l’altro. Mi contatta all’improvviso un mio collega senior, dicendo che tramite sue amicizie aveva sentito che c’era la necessità di un direttore della fotografia per un corto. Non conoscevo il regista, non sapevo nulla, mi hanno passato il numero di telefono.
Poi ho scoperto che era proprio per il 48h.
Come è stato il tuo rapporto con il regista?
Non c’è stato un vero confronto tra me e lui, perché non c’è stato il tempo.
Il primo approccio è stato telefonico, il 12 novembre.
Gli ho spiegato che tutta la mia attrezzatura era in Puglia, perché ero a Roma tra un lavoro e l’altro. Avevo solo l’esposimetro.
Lui forse è stato titubante all’inizio, non l’ho mai chiesto.
Il 48h Film Project avrebbe avuto inizio il 18 novembre… mi ha detto che c’era l’assistente del suo solito videomaker che poteva darmi una mano e che avrebbe portato macchina e lenti.
Mi ha fatto vedere un po’ di suoi lavori e ho studiato dal suo canale youtube i suoi videoclip e web serie: lì ho capito che il mio gusto fotografico era molto lontano da quello che piaceva a lui… ma ho cercato di interpretare al meglio possibile i suoi gusti e trovare un giusto compromesso che piacesse a entrambi.
Il 15 novembre abbiamo fatto un primo sopralluogo nella sua abitazione (dove avremmo girato), per capire illuminazione e punti macchina ipotetici, la mdp* era la Sony Alpha7 IV, non l’avevo mai utilizzata.
Un po’ come MacGyver, sono andato in giro per negozi cinesi, all’Ikea, ai negozi per il fai da te, per arredamento, per comprare un po’ di materiale che potessi utilizzare per il lighting.
una scena tratta dal cortometraggio
Il 18 novembre il regista Enrico Riccioni ha pescato alla presentazione del 48h Film Project il genere Dark Comedy.
“Quando hanno cominciato a scrivere, io ero abbastanza contento perché il mio gusto fotografico era vicino a quello della dark comedy: lowlight, un po’ dark che però con la narrazione di una commedia andava bene.”
Quei due giorni sono stati velocissimi: ricordo di essere arrivato da lui a metà giornata del 19; dopo che avevano passato tutto il tempo a scrivere facemmo una velocissima riunione in cui compresi la tipologia della scena e il tipo di luce da creare.
Quindi ho creato l’atmosfera della stanza (unica location* usata nel corto) e da lì in poi poi è stato un semplice “fare piccoli aggiusti” in base alle inquadrature scelte.
Ecco, non abbiamo avuto il tempo nemmeno di discutere bene il piano delle inquadrature*, è stato tutto in volata. Per la maggior parte del tempo io non avevo quasi idea di quello che stavamo girando, sapevo solo di dover mantenere l’atmosfera e aggiustare le luci in base alle scene.
Come hai affrontato le riprese notturne o in ambienti scarsamente illuminati, mantenendo un elevato livello di qualità dell’immagine?
Non conoscevo la camera.
Mi sono informato nel momento in cui me l’hanno data e sulla base dei provini fatti in dieci minuti ho deciso di girare tutto a 12800 iso nativi, e diaframma intorno a f 2.0, in modo tale da sfruttare al meglio tutta la luce disponibile. È stata una scommessa, ma è andata bene. Ho usato sempre la stessa lente, il 35 mm Sigma art*, perché tra quelle a disposizione era quella che più si confaceva agli spazi ristretti. Devo dire che nonostante il file fosse abbastanza leggero, mi ha permesso lo stesso di avere un buon margine di modifica in fase di color correction… e mi ha stupito!
Quali sono alcuni degli accessori o attrezzature fondamentali che hai utilizzato per ottenere l’aspetto desiderato in una scena?
Ho utilizzato principalmente tre luci practical: una abat-jour archimede, un lampadario con lampadina led, e una candela di scena. Il regista aveva un illuminatore da studio economico della Neewer con softbox con attacco E27, che ho utilizzato come taglio/fill e in cui ho messo due lampadine Ikea con telecomando (il che mi ha permesso di essere più veloce nel settaggio delle luci di volta in volta).
Quindi per la camera da letto usavo: la practical* per illuminare lo sfondo, e la lampada della Archimede Eclisse, con all’interno una lampadina alogena, per illuminare la finestra chiusa e fare anche da controluce ai vari attori in scena.
Ho dato la candela accesa all’attrice dicendole di tenerla semplicemente in mano. Giusto un paio di volte con le inquadrature più strette, le ho chiesto di avvicinarla al volto. Sotto le ho messo anche una federa di cuscino bianca per riflettere e ammorbidire ulteriormente la luce.
Siccome avevamo solo una candela, ho fatto sì che ogni volta che non era inquadrata la potessimo spegnere e ho lavorato con la fill light per dare comunque l’impressione che fosse ancora accesa. Per fare questo ho usato un paio di fogli di feltro che ho agganciato al softbox* che modulavo ogni volta in base alle necessità.
Poi la top light era un lampadario da soffitto, con un softbox palla cinese*, che ho capannato il più possibile con fogli di feltro e gommapiuma neri che ho acquistato ai negozi di cartoleria.
Infine la lampadina da comodino che ho preso dalla mia stanza a Roma, su cui ho montato una federa di cuscino bianca e una nera per poter modulare la luce al meglio possibile. L’ho usata principalmente come controluce e dettaglio morbido in corridoio, nelle scene del telefono e nella scena della consolazione.
Quali sono alcuni dei metodi che hai impiegato per controllare la profondità di campo e mettere a fuoco determinati soggetti in una scena, sapendo che hai utilizzato diaframmi apertissimi?
Avendo a disposizione solo il monitorino della camera, e quindi non riuscendo a seguire perfettamente la precisione dei fuochi in movimento, ho sempre cercato di tenere i soggetti fissi nell’inquadratura.
Ho applicato le regole base, cercando di tenere tutti o sulla stessa linea, oppure il personaggio che stava parlando l’ho tenuto a fuoco e l’altro leggermente indietro un poco più morbido.
Quando ci sono stati 4 soggetti insieme in scena, tutti con battute, ho cercato di metterli sullo stesso asse in modo tale da poter avere un fuoco unico per tutti.
Raccontaci un aneddoto di quei due giorni che ti ha emozionato particolarmente.
Quei due giorni sono stati davvero molto intensi. Ricordo di essere stato molto concentrato, e che quelle ore sono volate.
Poi, come ho detto all’inizio, partii subito per un altro set folle…
Ecco, forse un aneddoto divertente é che siccome ero su un altro set fuori Roma, quando c’è stata la premiazione ho mandato a prendere il premio un mio caro amico, con cui collaboro spesso, e che si chiama come me, Checco Ranieri.