Making Of Magazine

Le storie dietro le quinte

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LaCapaGira

Il Kolossal più povero del mondo
Intervista al regista Alessandro Piva

di Luca Desiderato e Adriano Guario

Alessandro Piva, regista cinematografico, racconta il dietro le quinte de “LaCapaGira”, inedito spaccato di una Bari anni Novanta. Girato in dialetto barese stretto, questo film è riuscito ad affascinare non solo l’intera città: si è conquistato una trionfale anteprima mondiale al Forum internazionale del Festival di Berlino, il David di Donatello 2000, il Ciak d’Oro e il Nastro d’Argento per la migliore regia esordiente.
A distanza di anni Alessandro Piva ci riporta in quell’atmosfera, svelandoci i retroscena.

Alessandro Piva

Qual è stata l’ispirazione dietro la creazione de “LaCapaGira” e cosa ti ha spinto a girare il film interamente a Bari?

È Roma che mi ha spinto verso Bari.
In quegli anni ero considerato un promettente regista in erba: fresco di diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia, ero stato finalista al Premio Solinas per due sceneggiature scritte con Salvatore De Mola. Frequentavo ambienti cinematografari in cui vedevo professionisti già affermati che mi incoraggiavano con grandi pacche sulla spalla, “prima o poi tu esordirai, si vede”. Avevo portato a Venezia uno degli episodi di un film collettivo, nel quale figuravo insieme ad alcune tra le vecchie glorie del cinema italiano. Avevo anche ricevuto l’opzione per un film da un produttore importante, che però non fu esercitata. Un altro produttore fece partire la preparazione di quello che doveva essere il mio film d’esordio, ma dirottò il finanziamento che aveva ottenuto da Mediaset per sanare debiti precedenti e il progetto si fermò, con la scusa che Bari era pericolosa e non attrezzata per il cinema. Intanto il tempo passava, avevo ormai raggiunto i trent’anni. Certo, in Italia i registi sono “giovani” fino ad oltre quarant’anni, ma io scalpitavo.
Un giorno incontro un mio collega, Renato De Maria, che mi dice: “Ho letto il tuo film. Una figata. Bella sceneggiatura”. Rispondo interdetto: “Ti ringrazio, apprezzo molto il tuo parere, ma… una curiosità: dove l’hai letta?! Non te l’ho mandata io”.
“Ero da un produttore in sala d’attesa, mi ha fatto fare anticamera tutto il pomeriggio. Come un fesso stavo lì ad aspettare… E ‘sto cornuto, lo sai che abitudine ha preso? Sul tavolino della sala d’attesa, invece delle riviste fa accatastare le sceneggiature che gli arrivano in produzione. E così ho letto Alessandro Piva sul frontespizio, e mi sono letto tutto lo script, per ingannare il tempo”.
Servono le scintille per far succedere certe cose. Pensavo: Renato, come me, si sta facendo le anticamere dai produttori, che ci portano in carrozzella (il modo barese per dire “alle calende greche”). A ‘sto punto, sai cosa? Andassero a quel paese!

foto di backstage Ph. Pasquale Susca © Seminal Film


Decido di tornare a Bari e di coinvolgere mio fratello Andrea, che nel frattempo aveva dimostrato un discreto talento con la penna ed era anche appassionato di biliardo, nonché giocatore di videopoker compulsivo.
“Andrea, tu sei sintonizzato con il ventre profondo di questa città: hai a disposizione un osservatorio non da poco, le bische che frequenti abitualmente. Io sto a Roma, nei salotti, a pontificare di cazzate e immaginare film che chissà quando mi faranno fare. Ma raccontiamola da soli questa Bari!”. Non se l’è fatto ripetere due volte.
I testimoni narrano che Andrea camminasse per i corridoi della De Gemmis, la biblioteca provinciale dove all’epoca svolgeva il servizio civile, declamando le battute del film in dialetto stretto. Le faceva sentire ai colleghi, alla direttrice della biblioteca, a chi c’era lì, chiedendo consigli e pareri, se quelle battute suonassero realistiche, se i personaggi funzionassero.

foto di backstage Ph. Pasquale Susca © Seminal Film

Com’è nato il processo creativo della sceneggiatura?

Non è stato facile.
Mio fratello scrisse questa sceneggiatura di sole 33 scene, un copione che era una sottiletta: tecnicamente inadeguato. Ma in realtà c’era la ciccia, i personaggi ispirati alla gente che popolava i luoghi frequentati da Andrea.
Partendo da quel copione ho aggiunto un po’ di scene, alcune situazioni, qualche personaggio: la struttura era diventata più complessa, ma ancora esile.
Era il progetto del mio primo film.
La sceneggiatura si presentava come un classico greco o latino: in traduzione italiana con il testo a fronte in barese stretto, incomprensibile. A Roma ci davano dei pazzi. Forse ho ancora qualche email: “Ma dove andate?”, “State sbattendo contro un muro”, “Vi farete male”. Cose così. Nessuno ci credeva.

il cast, da sinistra a destra: Dante Marmone, Mino Barbarese, Mimmo Mancini, Paolo Sassanelli, Dino Abbrescia; Ph. Pasquale Susca © Seminal Film

Quali sono state le prime figure che hai contattato e come le hai convinte?

La troupe è stata costruita sulla base delle mie esperienze personali, del mio vissuto romano.
Chiesi subito supporto agli ex-compagni con cui avevo legato di più durante gli anni del Centro Sperimentale di Cinematografia. Avevano tutti fame di esordire, come me.
Mi hanno stimolato molto, anche quando davanti alle tante difficoltà ipotizzavo di posticipare la lavorazione: loro erano lì a dirmi che il film era buono, che questa storia aveva bisogno di essere raccontata. Mi hanno spronato a rompere gli indugi.
Considerate le paghe ridicole che potevo proporre, se fossero stati degli sconosciuti forse il film non sarebbe esistito affatto. Oppure di sicuro non sarebbe ciò che poi è diventato.
Uno dei colpi vincenti è stato quindi scegliere una squadra di amici che si è messa al lavoro su un’idea non scontata, intuendo che quello oltre ad essere un piccolo progetto era un investimento anche per loro. La prendemmo come una sfida da affrontare insieme, come un piccolo miracolo da portare a casa.

Come hai prodotto il film?

A Roma avevo aperto un piccolo studio di montaggio e post produzione: ho venduto tutto e mi son fatto dare dei prestiti in giro, soprattutto in famiglia e da qualche amico.
Poi si è affiancato anche un co-produttore: mi ha procurato la cinepresa con un po’ di pellicola. E ci siamo lanciati verso Bari. Dentro Bari.

sopra, foto di backstage; Ph. Pasquale Susca © Seminal Film

Come ha risposto Bari a uno dei primi set che l’ha vista protagonista?

Bari non era assolutamente abituata al cinema, ma aveva voglia di essere raccontata. Ce l’ha dimostrato continuamente durante la lavorazione.
Le prime che abbiamo realizzato sono state le scene nei pressi della ferrovia, verso San Giorgio. Arriviamo in location, montiamo il cavalletto, giriamo le prime inquadrature. Gli attori cominciano a camminare sulla massicciata delle rotaie. Sentiamo un elicottero che si avvicina. Nel frattempo dall’altro lato dei binari arriva anche una volante della polizia: qualche macchinista del treno aveva notato la presenza di persone in prossimità delle rotaie e doveva aver chiamato la polizia.
“Cosa state facendo?” ci urlano col megafono.
“Stiamo girando un film” rispondo. Penso tra me: se mi chiedono i permessi è amara.
“Ah… va bene”.
Vediamo elicottero e volante che se ne vanno.
È stata la città stessa a dirmelo sin da subito, per questo film ti aiutiamo.
Quello era un progetto che pareggiava i conti: Bari voleva essere raccontata, svelarsi al mondo. E c’era davvero bisogno di aiutare uno che si stava giocando tutto per fare quel film.

foto di backstage; Ph. Pasquale Susca © Seminal Film

Hai coinvolto la gente del posto come comparse o collaboratori nel processo creativo? In che modo la loro presenza ha arricchito il film?

Non avevamo budget e quindi ci organizzavamo di giorno in giorno in base alle disponibilità di tutti: ci trovavamo a dover incastrare attori principali con figurazioni e location al meglio possibile, ma spesso non ci riuscivamo per tempo.
Una volta arrivati in location cominciavamo a girare mantenendo sempre un occhio e un orecchio a tutto quello che ci circondava.
Ad esempio la scena al chiosco delle patatine, Minuicchio “a tremila”, le due teste calde che fanno questioni.
Si avvicina il proprietario del chiosco: “Scusa, eh, ma per come la situazione sta apparecchiata, questi due non se le vogliono dare sul serio, vogliono soltanto essere separati”, mi dice.
Io ascolto, quando qualcuno viene così sicuro a dirmi qualcosa.
Poi decido io. Però ascolto sempre.
“Ah, c’hai ragione” gli dico, “Ma lo fai tu, giusto? Li separi tu?”
“Chi, io?… No, no”.
“Meh, dai: meglio di te, chi lo potrebbe fare?”.
E lo fece alla grande.
Altro esempio di città che si mette in gioco: stavamo girando i camera-car con Carrarmato. Le scene in camera-car si girano tutte insieme. Giravamo per Bari con l’auto di Carrarmato mentre gli davo indicazioni sulle azioni da fare in macchina. “Carrarma’, saluta uno per strada, fai finta che uno ti ha tagliato la strada”, tutte cose che voi avete visto nel film.
Ad un certo punto sfiliamo sul lungomare all’altezza di Pane e Pomodoro. Avvistiamo due falconi, i poliziotti della Municipale con le moto Guzzi. Mi avvicino ai due agenti: “Scusate, una parola, permettete?”
“Dica, che c’è?”
“Sono un regista, stiamo girando un film. Se non disturbo, noi vorremmo girare una scena. Vorremmo coinvolgere uno di voi, che dite?”
“No, noi non possiamo. Siamo in divisa, siamo di turno”.
“E allora facciamo una cosa” rilancio, “facciamo che lei viene e ci parla soltanto, senza farsi vedere”.
Allora il poliziotto si avvicina e guarda la macchina.
“Lui chi è? Un boss?”
“Sì, nel film è uno pesante.”
“Come si chiama?”
“Nino, detto Carrarmato.”
“Va bene, lo facciamo. Però non mi inquadrate la faccia …”
“No no, solo il guantone. Va bene anche solo il guantone quando gli dai la mano. Come ti chiami?”
“Maurizio.”
“Maurizio, noi facciamo il giro con la macchina, ti vediamo, lui rallenta, ti chiama e ti chiede un fatto, ok?”
“Vabbè”.
Giriamo l’angolo con la macchina, Carrarmato si volta di scatto e mi fa: “E mo’ c’ cazz’ ja disce?”
“Eh, Mimmo, digli che … Ti vuoi far levare la multa! Che tu vai sempre in giro e ti hanno fatto la multa e te la vuoi far togliere”.
Mimmo coglie al volo, fa un cenno di assenso e parte con la macchina.
Il resto lo potete vedere nel film. Buona la prima.
La lezione di recitazione più grande ce l’ha data il vigile: “Ce ‘so per te cinde mila lire…”
E ovviamente Mimmo non è stato da meno.
Questi sono tutti tasselli che mi hanno fatto sospettare – e poi me ne sono persuaso – che stavamo girando il kolossal più povero del mondo.

Ci sono delle location che hanno avuto un significato particolare per te?

La bisca.
Era una bisca vera, con gente che giocava ai videopoker fino alle tre di notte.
Il gestore è stato super collaborativo: ci ha concesso lo spazio per girare gratuitamente a patto di non dare fastidio ai giocatori. Quando loro chiudevano la saracinesca, noi entravamo.
Questo vuol dire che siamo stati costretti a girare quasi tutte le scene a notte fonda, creando una bolla temporale che ha influito molto sull’atmosfera del film.

foto di backstage; Ph. Pasquale Susca © Seminal Film

Perché hai scelto un montaggio così estremo?

Ho fatto quello che probabilmente qualsiasi regista giovane ai primi cimenti pensa di voler fare: un film “estremo”, che giustifichi l’economia dei mezzi.
Quindi l’assenza di budget è andata di pari passo con la ricerca e con la sperimentazione di forme narrative poco battute, a partire dalla lingua, passando per la diacronia notte-giorno.
La struttura narrativa del film era molto spinta già dalla sceneggiatura perché doveva piazzarsi in una nicchia specifica del cinema italiano che non potesse essere comparata a null’altro.
Questa scelta è stata talmente estrema che durante il montaggio mi resi conto che alcuni snodi risultavano davvero difficili da capire. Ho impiegato molto tempo in post-produzione per ammorbidire certi azzardi sintattici delle intenzioni iniziali.
Mi sono reso conto con quel film che Galliano Juso, storico produttore del cinema italiano, aveva ragione. Secondo lui i registi si dividono in due categorie: quelli che lavorano per il pubblico e quelli che lavorano contro il pubblico.
Io rientro nella prima categoria: certo a modo mio, visto il cinema che mi piace fare, non proprio Mainstream… Ma tenere il pubblico, farlo interrogare costantemente sul film, in una parola sola farlo lavorare, mi piace. Credo sia questa la ragione per cui sono particolarmente attento al ritmo dei dialoghi e al montaggio.

foto di backstage; Ph. Pasquale Susca © Seminal Film

Com’è stata la prima proiezione?

Non dimenticherò mai quando al cinema sono partiti per la prima volta i titoli di testa del film, con i camera-car della città. Nella sala riecheggiava un vociare diffuso e inarrestabile. Sul grande schermo del cinema il pubblico riconosceva i propri luoghi di appartenenza: i quartieri, le periferie, Corso Vittorio, la Fiera, il lungomare.
Sembrava una scena di Nuovo Cinema Paradiso: non avevano mai visto la loro città al cinema. Mai. Ed erano eccitati come dei bambini al cinema dell’oratorio.
Indimenticabile.

Cosa pensi de LaCapaGira a distanza di tanti anni?

La Capa è un film bandiera che racconta un’epoca, è un documento. È un atto d’amore verso un Meridione tragicamente bello, verso le sue impudicizie. È un film che si è fatto impossessare dalla città in cui è ambientato.
Un film che va oltre chi lo ha girato.

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