La Ricetta per la Felicità
Intervista alla regista Brunella Filì
di Marco Careccia
Durante un affascinante colloquio con Brunella Filì, regista e documentarista italiana, abbiamo esplorato il suo film ‘Alla Salute’ che narra la storia di Nick Difino, un “food performer” a cui viene diagnosticato un Linfoma, e del suo coraggioso percorso per affrontare la malattia.
Brunella ha condiviso con noi il suo viaggio nel trasformare questa esperienza reale in un coinvolgente racconto filmico, svelando le sfide, le riflessioni e gli aneddoti divertenti che hanno caratterizzato la realizzazione di questo straordinario progetto cinematografico.
Brunella Filì
Com’è nata l’idea di raccontare questa storia?
Nasce da una richiesta d’aiuto di un mio caro amico, Nick Difino. Ricordo bene il giorno in cui mi chiamò, rivelandomi di aver ricevuto una diagnosi di cancro. Sentiva la necessità di condividere ciò che avrebbe affrontato. Mi chiese aiuto: voleva che raccontassi in un documentario la sua storia, seguendola fino alla fine. Rimasi stordita, senza parole davanti a quella richiesta, come potevo accendere una telecamera senza sapere come sarebbe andata a finire la terapia? Ma non ho potuto dirgli di no. E così, senza pensare in quel momento che sarebbe davvero diventato un film, ma solo una testimonianza privata, iniziai a intervistarlo, dandogli nel frattempo alcune indicazioni tecniche per filmare e filmarsi da solo, pensando a un ipotetico futuro montaggio: gli dissi di includere non solo momenti privati, ma anche della terapia, del rapporto coi medici, con gli altri pazienti, con i suoi amici. Non fu facile, mi ricordavo spesso anche quel che avevo vissuto con la malattia di mio padre.
Qualche tempo dopo, ho trovato la forza di guardare tutto il materiale che andava raccogliendosi: è stato in quel momento che ho capito che quella storia aveva la forza di diventare un film. Anzi, doveva diventare un film.
Nick Difino e Brunella Filì alla premiazione del festival Biografilm
Come è strutturato il documentario?
Nel film, potremmo individuare tre strati narrativi distinti: la storia di Nick, raccontata visivamente attraverso i video diari e gli incontri con altri personaggi; ad alternarsi alla sua storia, troviamo gli interventi dei suoi amici chef, che preparano per lui le ricette che ama ma che non può mangiare a causa delle terapie e che, intanto, ricostruiscono la sua vicenda, amplificandola emotivamente con riflessioni profonde su temi importanti come l’amore, l’amicizia, la morte; e, infine, momenti puramente visivi e simbolici che ritraggono la natura e in particolare il Mare.
Come è stato lavorare con la sceneggiatrice Antonella Gaeta su questo documentario?
È stato un grande arricchimento per il nostro film, soprattutto in fase di costruzione del racconto. Fra noi si è creata un’amicizia e un sodalizio artistico che dura anche adesso, poichè stiamo lavorando sul mio terzo film insieme.
Per quanto riguarda “Alla Salute”, abbiamo iniziato il lavoro di scrittura —insieme a Nick, co-autore con noi della sceneggiatura— trascrivendo e scalettando il materiale visivo disponibile, per poterlo poi elaborare e ampliare in maniera drammaturgica, senza perdere l’autenticità del reale.
Sono stata felice di avere anche Antonella con noi sul set, in fase di lavorazione. Infatti, il metodo di lavoro che utilizzo quando giro prevede la possibilità di integrare lo script con scene immaginate anche durante le riprese stesse, interagendo con i protagonisti: per questo trovo utile che lo sceneggiatore sia presente sul set (decisione non condivisa da altri cineasti). Così è stato anche per “Alla salute”.
foto di backstage, la regista con la co-sceneggiatrice Antonella Gaeta
Quali sono state le tue indicazioni per i videoselfie?
Prevedendo che vi sarebbero stati momenti in cui non avrei potuto essere presente, ho dato principalmente indicazioni tecniche sul come tenere il più possibile ferma l’inquadratura, preoccuparsi che l’audio fosse perlomeno comprensibile e di mantenere una buona durata di ogni clip. Per quanto riguarda i contenuti non ho dato limiti, anzi, gli ho consigliato di accendere la camera anche in momenti più privati o quando incontrava dottori e infermieri, ma soprattutto quando era da solo. Così la camera è diventata un diario, un alter ego, un occhio magico dove poteva riversare il suo vissuto, come se fosse un personaggio diverso da lui a vivere quel dolore.
Questi materiali, che sono il cuore del film, sono stati un grande spunto anche per le riprese che abbiamo effettuato successivamente per integrare il racconto, utilizzando il metodo del re-enactment, ovvero quello di far rivivere al protagonista il suo vissuto, per poterlo riprendere in maniera autentica, anche in presenza di camere e luci, ri-elaborando il trauma e facendo scaturire emozioni autentiche e liberatorie. Molte scene sono così state ri-girate in modo da avere una forza visiva più coinvolgente, ma senza stravolgere la realtà dei fatti e il linguaggio filmico del self-tape.
Come è avvenuta la scelta delle persone da intervistare nel film?
Avevamo contemplato diversi nomi di chef e personalità che avevano incrociato Nick nel corso della sua carriera per intervistarli e alternarli al racconto, uniti dal filo rosso del cibo, elemento-talismano del nostro protagonista. Durante le riprese, le varie persone intervistate si integrano nella struttura narrativa immaginata, creando un perfetto equilibrio tra i loro interventi e le scene del film: partendo dalla sensibilità di Roy Paci, che si commuove nel raccontare il momento in cui ha appreso la notizia della malattia, passando per la reazione di sofferenza e rifiuto, ma anche di forza, dimostrata da Don Pasta quando parla delle cure (con la sua ricetta della parmigiana, definita ‘luogo esistenziale degli affetti’), fino alla profonda riflessione filosofica sulla morte dello chef Salvini, che affronta le nostre fragilità quando ci troviamo di fronte alla concreta possibilità di non farcela. È notevole anche la presenza, all’interno del film, di Vincenzo De Luci, trombettista fasanese che, dopo un grave incidente, ha trovato un modo per continuare a suonare la sua tromba, diventando così di grande ispirazione in una delle scene più potenti del film, quella del concerto all’alba.
foto di backstage da sinistra a destra: Antonella Gaeta, Davide Micocci, RoyPaci, Nick Difino, Brunella Filì
foto dal set, Paola Maugeri
Perché hai scelto come metafora l’immagine del mare?
Per me l’elemento acquatico è ricorrente. Il mare è presente anche nel finale del mio precedente film (Emergency Exit, anch’esso su Amazon Prime, e nel mio terzo film adesso in lavorazione, ‘Sea Sisters’). Il mare si presta a raccontare quello che è il continuo cambiamento, l’evoluzione dei nostri moti interiori e della vita in generale, l’imprevedibilità, la forza, la bellezza, ma anche la distruzione. Inoltre è un elemento forte anche visivamente e a livello sonoro: qui in “Alla Salute” abbiamo utilizzato anche il suo soundscape* per avvolgere lo spettatore e farlo immergere con noi nella storia.
Ha un significato particolare il filo rosso nell’acqua?
C’è questa scena in cui Nick nuota verso un profondo abisso, mentre il suono sembra sparire, in un blu quasi oscuro in cui il respiro si fa sospeso. Eppure, c’è un filo rosso impercettibile che si intravede ai bordi dell’inquadratura: ed è una cosa che quasi tutti gli spettatori hanno notato. In realtà, quel filo non era previsto, era semplicemente il salvagente in acqua mentre giravamo in subacquea. Quello che molti hanno pensato è che potesse simboleggiare il filo della flebo della chemio per il colore rosso o anche un cordone ombelicale in utero. Trovo sia meraviglioso vedere come il cinema dia la libertà allo spettatore di riempire ogni film con le proprie riflessioni, rielaborazioni, vissuti personali, andando oltre le intenzioni dell’autore, amplificandole.
Nick Difino in un frame delle riprese subacquee
Cosa ti ha insegnato questo film?
“Fare questo film mi ha cambiata molto, non è stato un viaggio semplice. Quello che mi ha lasciato è un pensiero sull’approccio alla vita: cercare di amare i momenti di felicità che spesso ci sfuggono e cercare di opporre bellezza al dolore: in fondo è questo che fa l’arte, oltre a cercare un senso dove spesso non lo vediamo.
Dal punto di vista della mia esperienza di cineasta, invece, mi ha insegnato che la realizzazione di un’opera cinematografica è un viaggio in cui c’è sempre in gioco qualcosa di personale, di urgente, una parte di te stesso, anche se la storia non è strettamente legata alla tua vita.
Come regista, ho capito infine che il mio ruolo, oltre che creativo, è quello di mantenere insieme tutti i pezzi che compongono l’intera opera, in ogni fase, comprese le persone che ti consentono di realizzarla. Significa curare un giardino composto di tante piante, ognuna va innaffiata con cura perché il giardino possa fiorire. Ma al termine del film, la gioia di condividere tutto con il pubblico è impagabile. Dico sempre che il cinema rappresenta uno scambio reciproco: tu doni al pubblico qualcosa di te attraverso il tuo film e il pubblico ti restituisce elementi del film che non conoscevi, suggestioni, letture. Si instaura uno scambio collettivo emozionante, che avviene anche nel processo di realizzazione del film, tra l’autore e la squadra con cui lavora, dalla produzione, alla scrittura, al montaggio, alle musiche, ognuno dà un apporto senza il quale il film non sarebbe lo stesso. Questo, per me come cineasta, è tutte le volte un “regalo” di cui sono incredibilmente grata, nonostante le difficoltà del processo produttivo e artistico”.