Antonella Gaeta
di Daniele Leuzzi
Realtà o finzione, dietro i lavori di Antonella Gaeta c’è tanta ricerca. Scrupolosa, attenta. Fatta non solo di letture di libri e carte del tribunale, ma anche di incontri e interviste utili a studiare i volti di chi quelle vicende le ha vissute. E quando si tratta di andare oltre la realtà storica, la ricerca cambia forma, ma non sostanza. Tutto dipende dal progetto che si vuole realizzare, proprio come spiega la giornalista, critica cinematografica, sceneggiatrice ed ex presidente della Fondazione Apulia Film Commission. Il successo del film ‘Ti mangio il cuore’ (2022) diretto da Pippo Mezzapesa – per cui Gaeta ha curato la sceneggiatura insieme allo stesso regista e Davide Serino – è legato al riferimento alla vita vissuta in un comune pugliese. Tratto dall’omonimo romanzo d’inchiesta di Carlo Bonini e Giuliano Foschini, si è ispirato alla vera storia di Rosa Di Fiore, prima pentita della mafia garganica.
Antonella Gaeta
«La ricerca è importante in fase di stesura, ma varia a seconda della natura dei film. Per i film documentari è mediamente molto intensa, prevede lo studio delle fonti soprattutto se si affronta un tema storicamente definito come è stato, per esempio, per “La nave dolce”, scritto per il regista Daniele Vicari. In quel caso si trattava di ricostruire l’arrivo della Vlora a Bari, nell’agosto del 1991, e comprendere la temperie storica che determinò quell’esodo biblico degli albanesi verso l’Italia, quindi Enver Hoxha, la sua caduta, la protesta degli studenti, la loro decisione di prendere d’assalto le navi per partire e assicurarsi un futuro possibile da noi, l’arrivo a Bari, la permanenza nel famigerato Stadio della Vittoria, i rimpatri. Il tutto attraverso le fonti dell’epoca, i materiali d’archivio e, soprattutto, i testimoni. E, dunque, cercarli, sentire le loro storie, capire come potessero comporre e far avanzare il racconto, quindi convincerli a stare davanti a una macchina da presa* a rispondere alle nostre domante.
una scena dal film “La nave dolce”
Tante fasi di ricerca prima di andare in scrittura vera e propria. Lo stesso dicasi, per esempio, per “Ti mangio il cuore” di Pippo Mezzapesa, che oltre al libro inchiesta di Carlo Bonini e Giuliano Foschini da cui è tratto, in fase di ricerca ha abbinato lo studio di una serie di documenti, incartamenti dei processi alla Mafia del Gargano, lettura interrogatori, incontri con i testimoni. Un lavoro sempre e comunque, molto avvincente, ma evidentemente diverso».
I suoi film portano sul grande schermo fatti di cronaca o situazioni romanzate. Tutto dipende dal progetto da completare. «Se di documentario si tratta, si sta vicinissimi alla realtà, alla cronaca; se sono di finzione esigono il volo della fantasia, del sogno, e in ultima analisi del romanzo, e dunque del romanzare. Poi ci sono quelli che vengono dalla purissima cronaca nera, come sarà la serie “Avetrana – Qui non è Hollywood”, sempre diretta da Mezzapesa, che uscirà il prossimo anno, in questo caso parliamo di finzione… e la questione diventa un’altra ancora».
Per Antonella scegliere le backstory* è, e lo è stato, molto stimolante. «Una parte molto divertente dello scrivere, e qui ci spostiamo nel territorio della finzione. Creare backstory per i personaggi, che ancora non esistono, ti consente una specie di sensazione demiurgica, inventi vite, rapporti, dolori, ferite, gioie. E tutto questo non lo metti in scena ma lo sottendi, sono il sostrato l’ossatura delle azioni che ciascun personaggio farà, anche un gesto minimo, la spiegazione più profonda del suo agire, la trama del suo io più profondo».
Una delle azioni da ideatori è costruire un personaggio. Con qualche aneddoto: «Se costruisci un personaggio che non esiste, come è l’Elia, interpretato da Sergio Rubini nel film “Il bene mio”, allora la totale libertà delle regole d’ingaggio ti dà una meravigliosa occasione di essere estremamente liberi. Chi è Elia, anzi, prima ancora, come si chiama questo personaggio così legato al suo paese fantasma, distrutto da un terremoto, tanto da non volerlo per nessuna ragione abbandonare? Elia, un nome breve, biblico ci pareva giusto. E cosa fa tutto il giorno, come passa il suo tempo, come sopravvive? Vai di invenzione, ma sempre tenendoti nel solco della coerenza, di un principio di realtà che abita completamente nel regno che non c’è, quello della fantasia. Nel caso del personaggio di Marilena di “Ti mangio il cuore”, interpretato da Elodie, ebbene lì avevamo un modello molto preciso, perché è ispirato alla reale vicenda della prima pentita della Mafia del Gargano. L’abbiamo incontrata e, anzi, è stato proprio averla davanti agli occhi che ci ha portato a ritenere che Elodie ne fosse l’interprete perfetta. E così è stato».
foto di backstage dal film “Ti mangio il cuore”; Ph. Sara Sabatino
Completato il film, manca ancora un altro tassello importante nel vortice delle emozioni che coinvolge chi fa cinema. Quello di vederlo sul grande schermo. Ed è stato così alla sua prima visione de “Ti mangio il cuore”: «L’emozione più grande è stato vederlo proiettato alla Mostra del cinema di Venezia, su uno schermo enorme, insieme a migliaia di spettatori, una vertigine assoluta. L’avevo già visto prima, in una piccola sala a Roma, ne avevo seguito in qualche maniera gli step di montaggio. Ma a Venezia è stato speciale, per tante ragioni. La potenza che esprimeva quel bianco e nero di quella vicenda appariva fatalmente amplificato, poteva contare sulla sua giusta dimensione. In generale vedere messa in scena, tramutata in azione e in vita, quello che si è scritto anche in lunghi e travagliati mesi è sempre strano, bizzarro, una specie di superpotere, così come lo chiamo di solito, tutto vive nella tua testa, in quella del gruppo di sceneggiatura e poi prende vita. Non è così veloce il processo, ma andando di sintesi, in fondo, è così».